Centocinquant’anni fa la Commune de Paris
di A. Spicciarelli
Alle prime ore del mattino del 18 marzo 1871 il popolo di Parigi insorse contro il tentativo dell’esercito regolare – inviato dal governo di Versailles, retto dal reazionario Adolphe Thiers – di disarmare la Guardia Nazionale dei suoi cannoni, acquistati grazie ad una sottoscrizione popolare per contribuire alla difesa della città dal nemico prussiano. Fu questa la scintilla che innescò un “assalto al cielo” della durata 72 giorni: la Comune di Parigi, ovvero l’autogoverno del popolo minuto (di tendenza pressoché blanquista) e operaio (di marca internazionalista) che vide per la prima volta ergersi un proletariato moderno ed avanzato a protagonista sul palcoscenico della Storia.
Il 21 marzo successivo il Comitato Centrale della Guardia Nazionale – simbolo di quella nazione in armi che si richiamava ai fasti di Valmy – acclamò all’unanimità Giuseppe Garibaldi come proprio comandante in capo, memori delle sue vittorie alla guida dell’Armata dei Vosgi contro le truppe tedesche. Questo il testo della lettera che fu affidata al piacentino Paolo Tibaldi (1824-1901), già volontario nel 1848 nelle file del Battaglione Universitario e difensore della Repubblica romana l’anno successivo:
«Parigi, 21 marzo 1871 – Federazione Repubblicana della Guardia Nazionale
Al cittadino Garibaldi
Cittadino: I delegati dei battaglioni della Guardia Nazionale di Parigi vi hanno acclamato all’unanimità loro Generale in Capo. Cittadino, voi siete l’autentico patriota della Repubblica universale e a questo titolo appartenente alla Guardia Nazionale di Parigi che finalmente ha rovesciato un regime di disonore e di corruzione per far posto al diritto e alla giustizia. Cittadino Garibaldi, la Guardia Nazionale spera che accetterete il mandato ch’essa vi offre e che il cittadino Tibaldi si incarica di venirvi a portare personalmente.
Per l’Assemblea Generale della Federazione
I membri del Comitato Centrale, in seduta all’Hôtel-de-Ville».
Al messaggio, giunto forse in ritardo a Caprera, dove il Generale si era ritirato dopo le sue dimissioni dall’Assemblea Nazionale e lo scioglimento dell’Armata dei Vosgi, Garibaldi replicò con un peana alla Comune ormai caduta:
«Salve o grande caduta! La maggior pena che io provo è di non avere potuto porgerti una mano – nella tua lotta da giganti – Una mano a te ch’io amo come se foste la natìa mia culla. […] Non un individuo che si rispetti […] potrà non distinguere l’eroica grandezza del tuo sacrificio – dal vilissimo procedere del piccolissimo ministro della monarchia buffanescamente mascherato da Repubblicano».
Se il Nizzardo non raccolse l’invito proveniente da Parigi, nella Ville-Lumière non mancarono però le sue camicie rosse, per la maggior parte appena smobilitate dall’esercito dei Vosgi. Il ducale Luigi Musini, futuro deputato socialista al Parlamento italiano, aveva notato che nella capitale transalpina «noi garibaldini eravamo fatti segno alla più viva simpatia, al contrario che in provincia». Inoltre in quel clima fortemente pre-insurrezionale fu testimone di come, all’ombra della Torre di Luglio, vi fossero «Fra gli oratori più furibondi […] parecchi in camicia rossa» (11 marzo 1871).
Già nei mesi precedenti alla proclamazione della Comune si erano resi protagonisti, nei battaglioni federati, gli ex garibaldini Amilcare Cipriani (1844-1918) e Gaetano Davoli (1835-1911), entrambi arruolatisi nel reparto guidato da Gustave Flourens e protagonisti nel tentato colpo di mano del 31 ottobre 1870 (prima del 18 marzo ne fallì anche un secondo, il 22 gennaio 1871). Ancora, furono a Parigi anche Giuseppe Berni (1838), di Caorso, e il reggiano Federico Ravà (1842): quest’ultimo, reduce delle campagne trentina, cretese e romana (1866-67), subì come Cipriani la condanna alla deportazione in Nuova Caledonia, comminata dal Consiglio di guerra all’indomani della cosiddetta semaine sanglante (21-28 maggio), la “settimana di sangue” durante la quale i regolari di Versailles repressero con inaudita ferocia l’insurrezione parigina.
Emblematico, infine, è il caso di due comunardi emiliani, la cui partecipazione ai fatti della primavera del ’71 è attestata dalla Prefettura di Bologna: Teobaldo Buggini e Alfonso Leonesi (il primo veterano del ’66; il secondo, reduce di Bezzecca e Mentana, sarebbe poi accorso a Domokos nel 1897) si sarebbero “convertiti” agli ideali internazionalisti proprio alla luce dei fatti della Comune e, una volta rientrati in Italia, sarebbero stati fra i promotori – assieme a svariati altri reduci dei Vosgi – del Fascio Operaio felsineo, futura sezione della Federazione Italiana dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori. Proprio per la loro pregressa esperienza militare, ambedue avrebbero ricoperto un ruolo di primo piano nel moto insurrezionale anarco-internazionalista dell’8 agosto 1874, ispirato ai principî bakuniniani ed organizzato fra gli altri da Andrea Costa. Ciò può dare la misura non solo della potente influenza che la Comune di Parigi – sebbene sorretta da un’eterogeneità di tendenze ideologiche e fin da subito operante per la sua stessa sopravvivenza – ebbe sullo sviluppo del movimento operaio italiano, ma anche quanto gli stessi garibaldini (reduci dai Vosgi o dall’esperienza comunalista) rivestirono un ruolo di primissimo piano nella circolazione delle idee socialiste, anarchiche e federaliste importate in Italia – dove pure avevano già attecchito, seppur in misura contenuta, nel Meridione – proprio all’indomani della scintilla transalpina.